AUSCHWITZ-BIRKENAU – Io ci sono stato la dentro…

27/01 – Appunti per il Giorno della Memoria

Io ci sono stato, la dentro. Quando arrivi ad Auschwitz I, la prima cosa che noti, ancora prima di varcare il tristemente famoso cancello, sono le reti deformate. Quelle reti che furono elettrificate, e che, ti spiegano le persone del posto, sono state deformate delle persone che ci si gettavano contro di corsa: “almeno la facciamo finita subito”.

Vedere quel cancello con la scritta mette i brividi. E non è una frase d’effetto. L’effetto è quello di vedere materializzato davanti a te l’orrore in tre semplici parole: “Arbeit Macht Frei”. Da quel momento, non hai più parole, la voce la lasci fuori. Non c’è bisogno di parlare. Li, prima di entrare, se ti guardi attorno, sembra tutto in bianco e nero. Forse perchè tutti conosciamo bene quei posti, li abbiamo visti in centinaia di vecchie foto nei libri. Poi entri e vedi l’orrore. Entri nell’orrore.

E qui, ad Auschwitz I l’orrore è ancora più bastardo perchè regna l’ordine. Palazzine ben tenute, vialetti, piccoli piazzali. Poi entri nelle palazzine e vedi nei sotterranei le camere delle torture. Le prime piccole camere a gas, i graffi insanguinati che da 60 anni stanno li sulla parete. Si vedono le ruote di pietra usate per schiacciare i bambini, le stanze dove Mengele si divertiva a iniettare acqua salata nei bulbi oculari delle persone così, giusto per vedere che effetto che fa. Si vedono stanze di 5 metri per 5 profonde 3 piene di occhiali. Un altra piena di spazzole. Un altra di pettini. Non è dato sapere quante quanti siano, ma l’enormità non è esprimibile con un numero preciso. Si sta in silenzio. Non c’è niente da dire. Li nessuno parla. Non ce n’è bisogno.

Io ci sono stato, la dentro. Ed ho provato nausea. Non per le scene che si immaginano successe li sotto ai tuoi piedi. Nausea per appartenere a quella stessa razza (termine appropriato, li…) che ha osato tanto.

Poi si esce e ci si dirige ad Auschwitz III, la famigerata Birkenau. Quel campo di sterminio visto in Schindler’s List, per capirci. Già da lontano vedi la sagoma di quella costruzione allungata con la torre e quel tunnel centrale dal quale entravano i treni. E cominci ad avere paura. Si ha la sensazione di essere su quel treno e di essere destinati a dover entrare là. Brividi. Qualcuno con gli occhi gonfi si sofferma e guarda l’entrata ma non ce la fa ad entrare nel campo. Lo capisco ma mi faccio forza ed entro.
Davanti a me una enorme radura, disseminata di grandi capanne di legno, la maggior parte distrutte dai soldati Tedeschi in fuga. Lontano, quello che resta delle torri dei forni crematori. Entro nelle capanne, guardo i trabiccoli di legno dove dormivano in 4,5 o anche più in un metro e mezzo di spazio. Le capanne latrina, riscaldate solo dagli escrementi. Ci ritroviamo a camminare a fianco dei binari. Quanti ne sono scesi qui, dove sono adesso? Non ce la fai a darti una risposta. Ti senti in colpa e non sai perché.

L’istinto ti porta all’apoteosi. Il forno crematorio. Quei bastardi hanno fatto saltare tutto prima di andarsene. Ma ancora si intravedono le scale che scendono sottoterra, i locali con le pareti piastrellate da cui spuntano dei ganci ironicamente numerati. “Ricorda il numero dove lasci il vestito” sicuramente avranno detto, sogghignando. Anche li dentro le rotaie. Di un treno più piccolo, composto da una serie di carrelli sui quali venivano caricati industrialmente i cadaveri ammazzati dallo “Zyklon B” e portati nel locale accanto, dove c’erano i forni.

Non è una illusione. Ancora, li c’è odore di morte.

Io ci sono stato, la dentro. E le sensazioni che si provano in quei posti non hanno uguali. Milioni di persone sono accanto a te mentre cammini, leggere, nel vento.

La morte è dolorosa. L’uomo ha saputo renderla atroce.