Questo articolo è stato da me scritto nel mese di Settembre 2001 per la rivista “Casentino 2000”. A mente calda, a poche ore dall’attentato alle Twin Towers di New York. Riletto oggi, sembra che siano passati pochi giorni….
E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento
Salvatore Quasimodo
E’ facile, in certi momenti dire: “l’avevo detto”. E’ più difficile, in momenti storici come questo che stiamo vivendo, sentirsi degli esseri umani. Davanti a certi atti, davanti alla storia cambiata per sempre dalla follia di pochi esseri, definiti umani solo per la loro appartenenza a tale razza, viene quasi da invidiare il comportamento degli animali. Loro sono guidati dall’istinto, dall’intuito, e non hanno bisogno bisogno di alibi né di scappatoie morali. Sto scrivendo queste poche righe controvoglia, cercando di fermare sulla carta qualcosa di quello che mi passa per la mente in questi momenti. New York è dappertutto: la vediamo dalle televisioni, le radio raccontano l’orrore, si mettono da parte i giornali per farli leggere un giorno ai nostri figli. Si pensa che non sia vero, che sia tutto un incubo, e che domani la
sveglia ci riporti alla normalità di un mondo brutto, si, ma non come quello nel quale ci siamo ritrovati da questo martedì di Settembre. Tutto si mescola dentro. Le immagini delle fiamme, le persone che cadono dal centesimo piano, si fondono con i ricordi dei libri e delle poesie studiati a scuola, scritti per avvenimenti del passato che mai ci saremmo pensati di dover rivivere. Come possiamo cantare noi oggi, parafrasando Quasimodo, con migliaia di morti abbandonati sulla piazza, con le madri che cercano il proprio figlio fra le macerie? Come sarà il domani? Cosa potrà accadere ancora?
Cosa proveremo riascoltando Giovanni Lindo Ferretti:
Annus horribilis, in decade malefica,
decade malefica in stolto secolo,
secolo osceno e pavido,
grondante sangue e vacuo di promesse.
Il secolo appena passato è stato chiamato il secolo delle guerre. Quello che ci aspetta forse sarà il secolo del sangue. I campi di battaglia si sono spostati. Non più tronfi generali a spostar bandierine su una carta geografica. Oggi le guerre sono combattute da singoli. I mandanti spesso non si conoscono neanche, ma i loro soldati sono quotidianamente all’opera. Sparando sulla folla al mercato, imbottendosi di esplosivo e facendo saltare in aria un autobus in nome di Allah, cristiani protestanti che tirano pietre e bombe molotov contro gli scolari cristiani anch’essi ma cattolici, colpevoli di vivere in una protestantissima ed europeissima nazione occidentale, oppure dirottando quattro aerei di linea e facendoli cadere sopra centomila persone. In questi giorni si parla di guerra. Non credo che si arrivi a tanto. Lo spero, perlomeno. Perché la Guerra, quella con la “G” maiuscola ha delle regole, dei nemici ben individuabili, un proprio codice, l’intrinseco rispetto del nemico. Mentre le guerre moderne non conoscono nulla di tutto ciò. Le parole d’ordine sono: morte, sterminio, annientamento a tutti i costi e con qualsiasi mezzo.
La rabbia è il sentimento col quale si apre questo ventunesimo secolo. La rabbia del folle che uccide, e la rabbia di chi piange le vittime. Noi oggi siamo fratelli delle migliaia di persone uccise, ed il nostro sentimento prevalente è la rabbia. Non nascondiamoci dietro alle solite facciate: il perdono e la comprensione sono cazzate, sono pure invenzioni che fanno solo audience in TV. Nessuna anima può essere tanto alta da poter pensare di perdonare chi ha commesso certi atti. Io provo rabbia verso quei quaranta pazzi. Non mi nascondo dietro a maschere insulse. Quei tre minuti di silenzio, quando tutto il mondo si è fermato per rendere omaggio alle vittime, sono stati i tre minuti più terribili della mia vita. E provavo rabbia, non di certo voglia di perdonare. Ma tutta la rabbia che provavo e che provo tuttora mi istiga a cercare una soluzione per far si che certe cose non possano più succedere. Non c’è volontà di annientamento nella mia rabbia. C’è volontà di capire perché sia stato possibile che certe cose siano accadute.
I popoli hanno il dovere di cercare di adoperarsi per evitare certe tragedie, seguendo nient’altro che il proprio istinto. Proprio come gli animali. Lasciamo da parte gli stereotipi, i pregiudizi, gli odii, i dogmi religiosi ed impariamo a ragionare seguendo l’esperienza e l’istinto. Impariamo a comprendere il mondo che ci circonda. Parliamo l’uno con l’altro. Facciamoci delle opinioni e confrontiamole, al massimo ci potranno dare dei coglioni. Nella nostra personale sfida contro l’orrore, Il ragionamento dovrà essere la nostra tattica, il dialogo la nostra arma, il dolore la motivazione. Gli assassini sono dei singoli che riescono a compiere atti enormi nella loro atrocità. Ognuno di noi, da solo, può cercare di dare un contributo per far si che nulla di quello che è accaduto si ripeta. E sarà altrettanto enorme il risultato. In questo modo, i governanti non avranno più la necessità di dichiarare guerre, con la “g” maiuscola o minuscola.